Editorial

È tempo di una narrazione positiva

di Peter Schiesser, Vicepresidente dell'ASPE | Gennaio 2018
La tentazione di mostrare i muscoli nei rapporti con l'Unione europea è alta, in Svizzera, ma non basta calmare le acque con Bruxelles per ridare slancio ai rapporti bilaterali: serve una consapevolezza collettiva della loro importanza.

Nel dibattito pubblico sulle relazioni con l'Europa – politico e popolare – la destra nazionalista sembra essere riuscita ad imporre in Svizzera una chiara narrativa: abbiamo concesso troppo a Bruxelles, adesso è tempo per noi di ottenere di più in cambio. Un atteggiamento condiviso anche da esponenti di una destra borghese più moderata, carico di aspettative ma anche di rischi e conseguenze, come abbiamo potuto vedere prima di Natale con le polemiche sorte attorno al miliardo di coesione e al riconoscimento da parte dell'UE dell'equivalenza della Borsa svizzera, limitata ad un anno in attesa di progressi significativi nei negoziati sull'accordo istituzionale.

In effetti, il cosiddetto miliardo di coesione, accettato in votazione popolare nel 2006 con il 53,4 per cento, era dichiaratamente il prezzo che la Svizzera doveva pagare per avere accesso ai mercati dei 10 paesi dell'est europeo. Eppure, in questo clima da «basta concessioni!», ecco che il rinnovo del credito (1,3 miliardi di franchi su dieci anni) diventa l'occasione per taluni politici svizzeri di dar prova di fantasia: la presidente del PLR Petra Gössi chiede di vincolare il miliardo di coesione alla cancellazione della clausola ghigliottina che grava sul primo pacchetto di accordi bilaterali; il consigliere federale Maurer dichiara alla Radio svizzera che il riconoscimento dell'equivalenza della Borsa svizzera non è una concessione sufficiente in cambio del miliardo di coesione, ci vorrebbe anche il libero accesso ai mercati finanziari europei; più prevedibilmente, il presidente dell'UDC Albert Rösti annuncia che il suo partito combatterà il credito in Parlamento.

Sappiamo qual è stata la reazione della Commissione europea: l'equivalenza della Borsa svizzera viene riconosciuta per un anno soltanto, in attesa che si arrivi ad una svolta nei negoziati sull'accordo istituzionale. In Svizzera molti hanno gridato al ricatto, soprattutto fra coloro che di solito chiedono una posizione più ferma e sicura di sé della Svizzera verso l'UE. Lo stesso Consiglio federale ha dovuto mostrare i muscoli, annunciando di eventualmente rivedere il suo assenso al miliardo di coesione.

Ma, in realtà, di quali armi dispone chi in Svizzera è convinto di poter negoziare con l'UE da una posizione di forza? Bruxelles può muovere innumerevoli leve per rendere la vita più difficile a aziende, studenti, ricercatori, commercianti, ma noi su che cosa possiamo contare? Da quando è terminata la Guerra fredda, la Svizzera è più esposta e vulnerabile alle pressioni internazionali; le polemiche attorno al ruolo del nostro paese nella seconda guerra mondiale a metà degli anni Novanta, e più tardi, dal 2008, gli attacchi al segreto bancario svizzero, ci hanno mostrato che in passato la prima reazione è sempre stata di altezzosa sufficienza, ma alla fine si è dovuto cedere alle pressioni. Sarebbe diverso in un confronto duro con l'Unione europea?

Non tutti però vogliono il confronto. Anche fra i politici borghesi c'è chi invita il Consiglio federale a evitare di porre vincoli e di cercare lo scontro con l'UE. Tuttavia, è sufficiente che il Consiglio federale sia più prudente, per contrastare la percezione negativa dell'Unione europea?

Per modificare gli umori della nazione, occorrerebbe altrettanta energia da dedicare a una narrativa che metta in luce e difenda l'importanza che per noi hanno l'Europa e gli accordi con essa stipulati, e quindi l'importanza di un accordo istituzionale (o Bilaterali III, come lo si voglia chiamare). È innegabile, ma forse un po' dimenticato, che il primo pacchetto di accordi bilaterali ha contribuito a rafforzare l'economia svizzera, dopo gli anni di stagnazione e bassa crescita seguiti alla votazione del 6 dicembre 1992 contro lo Spazio economico europeo. La libera circolazione delle persone ha permesso di avere a disposizione quella manodopera specializzata che l'economia (e lo Stato, soprattutto nella sanità) da tempo reclamava, al netto dei costi di formazione. Contemporaneamente, ricercatori svizzeri hanno accesso a programmi e fondi europei, ben inseriti in un contesto di confronto internazionale. Non è (più) un buon affare?

Ma c'è un messaggio ancora più sottile da comunicare: la politica di apertura sfociata negli accordi con l'UE ha dato una libertà senza precedenti anche a noi svizzeri. Con quale facilità, rispetto al passato, ci spostiamo, studiamo, lavoriamo, comunichiamo e ci relazioniamo in tutta Europa. Che senso avrebbe perdere queste libertà?